Infatti non tacciamo, e il comandamento Non dirai falsa testimonianza ci travolge anzitutto per la pressante incapacità di apprezzare il silenzio e di affidarci alla parola, come se essa stessa bastasse a conquistare la libertà. Dovremmo affidarci alle “comuni parole”, direzione di verità condivisa, e invece oggi la parola è arbitraria, abusata, strappata, inflazionata. Soprattutto in Italia, dove è un vizio nazionale: parlare si può impunemtene, tutt'al più siamo responsabili dei fatti, ma il verbale è banalizzato, nemmeno ci preoccupiamo più di tanto se è falsa testimonianza o verità. Tanto ci siamo abituati: la pubblicità dilaga, ci abbiano fatto la pelle; la politica macina demagogia e promesse elettorali, e si lascia correre, chi prende più sul serio? La riflessione dotta pontifica in seminari dove l'eccessiva misura del parlare è pari spesso a quella dell'indifferenza di chi è in sala.
Siamo partiti in salita alla libreria Citè, nel popolare Oltrarno fiorentino, a discutere con tre persone, oltre al sottoscritto nelle vesti del politico, che della testimonianza e della parola hanno fatto il loro lavoro – terzo appuntamento del ciclo di incontri dedicato ai Dieci Comandamenti: una giornalista e scrittirice, che nel suo ultimo laoro (“Ribelli”, Infinito), è andata a ricercare le voci dei partigiani ancora in vita, perchè il loro racconto orale non vada disperso; un senatore del PDL, che ha voluto proporre una riflessione sulla menzogna necessaria, sulla scia di Machiavelli, che metteva in guardia contro le ipocrisie delle “verità”; un regista del Piccolo di Milano, abituato alla convenzionale parola del teatro, una parola coccolata e preparata minuziosamente, paradossale perché menzoagna per definizione, eppure verità della scena, a carte scoperte; e un pastrore valdese, che ogni domenica affronta il sermone per annunciare e spiegare il verbo.
Parole, parole, parole.
Ma il mondo è cambiato rispetto all'Antico Testamento, dove la locuzione “ho ascoltato”, “ho udito una voce”, ricorre nove volte di più che non “ho visto”, “ho avuto una visione”. L'apprendimento era via auricolare, e oggi è tutto il contrario, nella civiltà dell'immagine, dove crediamo solo a quanto si vede, e magari tocca, non certo a ciò che sentiamo, che ci dicono, e il radicamento, fin nel nostro intimo, dei vari tipi di schermi ha il suo peso in questo.
Il pastore ci ricorda la storia biblica delle due donne che si contendono il figlio, e Salomone che propone di tagliarlo in due. Sarà colei che allora mente - “non è mio figlio”, per lasciarlo in vita, che afferma la verità. Diffidiamo delle apparenzem allora e ricordo come Shakesperare abbia scritto in “A piacer vostro” che “le persone ragionevoli parlano in modo folle, e i matti ragionano come i saggi”. E così discernere la falsa dalla vera testimonianza non è scontato, e anche al bambino insegniamo la menzogna – che quando diventa consapevole è il primo atto di presa di coscienza di sé come entità distinta dagli altri, come spazio di autonomia decisionale. Perché la sincerità del bambino a volte disturba, occorre il rispetto, il tatto, l'educazione, la convenienza. La giornalista ricorda che si predica bene e si razzola male, e che nel mondo dell'informazione il precariato è la regola, e dunque la condizione della ricattabilità. Ma nessuno può contestare il messaggio potente del comandamento, solo che ognuno deve difendersi quasi da solo, deve capire quando gli altri lo rispettano, e credergli, e quando noi stessi dobbiamo rispettarlo – e il confine è una lama di rasoio, e si ricomincia a dibattere in questo mare ambiguo.
Tutto più facile a Roma, alla Casa della Cultura a Trastevere. Di scena il comandamento più di successo: Non uccidere. Nessuno ormai lo mette in discussione, è anzi il precetto maggiormente inegrato nei corpi legislativi: non si uccide, crimine sommo e anche facile da definire, perchè una vita soppressa è una vita soprressa, non c'è la mezza misura. Addirittura all'Assemblea Generale dell'ONU l'approvazione della moratoria sulla pena di morte ha sancito che la stessa morte legittima di Stato è sempre meno tollerata. Così Non uccidere é il precetto più consensuale, più realizzato nella dimensione storica della nostra società.
Ma a parlare siamo insieme a una donna che si occupa di diritto di famiglia, a un precario che ha scritto un libro sui licenziamenti, a un giornalista “ricercatore di verità”, a un filosofo, a un avvocato. Tutti reclamano un'applicazione progressivamente sempre più estesa del comandamento: non basta non uccidere il vicino, o non uccidere il feto o addirittura l'embrione, ma oggi non vogliamo più uccidere nemmeno chi non conosciamo e nemmeno mai incontreremo, ripudiando la guerra e non affamando popoli lontani, e anche i diritti degli animali impongono un trattamento sempre più dignitoso nei loro confronti.
E molto oltre. L'omicidio è oggi anche l'uccisione del lavoro, o della giustizia, o della famiglia, o della memoria collettiva di un popolo – negando dimensioni private o collettive senza le quali l'esistenza diventa pura dimensione fisica. Per parlare di “uccisione”, occorre però che si neghi un principio considerato vitale, senza il quale non vale più la pena di vivere – e oggi, ad esempio, il lavoro è diventata spesso la condizione attraverso la quale siamo spesso riconosciuti. Non a caso, privati del figlio che viene allontanato dalla madre, o del lavoro, si arriva al suicidio, perché ci si ritrova senza vita. Non solo, occorre che l'atto compiuto sia irreparabile, perché uccidere non equivale a offendere, a sospendere, a togliere: è un atto che ha varcato la linea rossa del non ritorno, che ha alterato condizioni non più riprisitinabili.
Capita, ad esempio, col negazionismo di Stato, che istituzionalizza una contro-verità storica, come ha ricordato nel dibattito un rappresentante dell'ANPI. La poltiica oggi deve saper tracciare una nuova linea rossa, aggiornare i crimini che sono commessi in spregio al comandamento Non uccidere, arginare in tutti i modi non solo l'omicidio fisico del prossimo, ma ogni altra eliminazione di ciò che è vita. Per capire l'enormità del compito, dobbiamo fare i conti con ciò che è intoccabile, entriamo nel campo del sacro. Ma oggi abbiamo una politica corrente che non si riferisce a una legge superiore, ma allo spread. Eppure usciamo per una volta a testa alta da questa riflessione, perchè alla fine la vita è sempre più forte, e se il comandamento Non uccidere ha vinto buona parte bdella sua scommessa almeno con le intenzioni collettive, è uno sprone continuo, che ci incalza, ci incalza col suo soffio vitale.
Sono più disorientato a Porto San Giorgio, cittadina marchigiana, dove in una sala sul lungomare e sotto una pioggia che scoraggia l'ispirazione, ci ritroviamo con tre amministratori locali di diversa formazione a ragionare su un enigma: Non nominare il nome di Dio invano. Ma di che parliamo? Chi oggi invoca ancora qualcosa, e tantopiù Dio? Invochiamo i soldi e il potere, la ricerca edonistica e la voglia consumistica, e una lunga serie di altri idoli. Ma Dio resta fuori della nostra sensibilità – questo, almeno, il mio sentire – altro che invocarlo “invano”.
Pico della Mirandola nel Quattrocento lo annuncò a chiare lettere: la vera pace è teologica, o non è. Ne siamo lontani. Dio è lasciato fuori della stanza, anche quando dovrebbe essere invocato a proposito. Ho raccontato ad esempio della mia frustrazione ogni qual volta visito Gerusalemme e la Palestina, là dove la politica fallisce da ogni parte – israeliena, palestinese, europea, inernazionale – ma dove alla fine la responsabilità più alta la portano e religioni, ancora incapaci di dialogo, e ancor meno di intesa.
Un'assessora di Fermo ha ricordato come il comandamento possa essere interpretato nel senso di banalizzare la politica, evitare cioè che una così nobile dimensione, come quella dell'operare per il bene comune, possa frantumarsi e ridursi in un'affannosa rincorsa del potere e di interessi personalistici, dove ci si riempie la bocca e si invoa tutto e il contrario di tutto, ma non i valori che dovrebbero guidare l'azione della politica. Anche il candidato sindaco ha invitato alla sobrietà, alla necessità di resistere alal tentazione degli anunci, forma di invocazione a effetto che sostituisce ogni dimensione alta. Per concludere un comandamento che sfugge alla nostra pratica quotidiana, ho ripetetuto le parole di Don Milanim il migliore viatico alla vita pubblica, a quell'impegno che se sa invocare sa anche far bene e ne ottiene subito una luce: “Amare i figli dei poveri e fare politica è tutt'uno”. Invochiamo almeno questa alleanza.
Niccolò Rinaldi